«Un bellissimo romanzo... incredibilmente divertente» c'è scritto sulla copertina. Così mi sono immaginata risate sommesse tra me e me o scoppi sonori seguiti da un mio: “Senti questo passaggio, te lo devo leggere!”.
Invece all'inizio ho trovato solo confusione, troppi nomi da imparare subito, troppi personaggi che si confondevano l'uno con l'altro e poi la voce narrante, non sono sicura di aver capito a chi appartiene la voce narrante. Gli intrighi, i licenziamenti e le gelosie mi sembravano così irreali e poco credibili, per non parlare dei protagonisti, meschini e insensibili. Insomma l'agenzia pubblicitaria dove è ambientato “E poi siamo arrivati alla fine” di Joshua Ferris è il posto di lavoro più terribile in cui abbia messo piede.
Nonostante questo, ho proseguito la lettura e sono arrivata alla fine, che mi ha confusa ancora di più. Ma, a distanza di tempo, questo libro ha acquistato alcune sfumature, alcune sensazioni che per me hanno senso, molto senso.
Tutti quei nomi, all'inizio del romanzo, la difficoltà a collegare chi ha fatto cosa e le mansioni di ognuno, non è forse la stessa che si prova quando si va a lavorare in un nuovo posto di lavoro? E gli intrighi e le vicende surreali non sono forse altrettanto incomprensibili, come quelle che avvengono tra le mura dei nostri uffici e di cui non parleremmo così tanto, in pausa caffè, se non fossero proprio così strane? E i nostri colleghi alle volte non ci sembrano altrettanto meschini, distanti da noi e dal nostro modo di concepire il lavoro o la vita stessa?
Ora mi è chiaro il commento di Nick Hornby in copertina: «... si riesce a sentire il rumore delle nostre vite che scorrono», perché è lì che trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, in ufficio, ed è con loro che condividiamo le ore, i colleghi.
La cosa buffa del lavoro era il fatto che fosse sopportabile. Il compito più noioso era sopportabilissimo. Le sfide da vincere, la confusione dovuta a un'urgenza, la soddisfazione del compito portato a termine, ogni giorno rendevano il lavoro totalmente, persino armoniosamente, sopportabile. Quello di cui ci lamentavamo, quello su cui non potevamo soprassedere, quello che ci turbava e consumava con furia cieca erano le persone che facevano soffrire e offendevano gli angeli in cielo, che portavano vestiti sbagliati e ci scaricavano addosso per forza le loro caratteristiche intollerabili, persone che da un dio giusto avrebbero meritato solo dolore e disprezzo perché erano insulse, prive di poesia, inesorabilmente tenaci e insensibili al gesto grandioso.
Continuo però a non trovare tutto ciò divertente, anzi, molto triste.
Mi piace questa tua "rilettura" dopo aver lasciato decantare il libro.
RispondiEliminaIo ero rimasto attirato dalla quarta di copertina, dai commenti di Nick Hornby (adorando i suoi libri mi lascio influenzare dalle sue dritte).
Però il mio giudizio è uguale al tuo iniziale: un pò di confusione, piccole storie parallele che non decollano e non ti trasportano, poca curiosità per evdere l'evolversi della trama, etc.
E per questo motivo non finirà tra i libri che potrò consigliare a qualcuno.
Unica nota: l'ambiente lavorativo descritto nel libro, purtroppo sarà uguale, se non migliore, di molti uffici in cui potrebbe capitare un giorno di finire a lavorare. Prendiamo spunto da quanto si legge per sapere fino a dove si spingono i colleghi e farci trovare preparati.
Grazie per quello che hai scritto e alla prossima lettura.
Ciao
Silvio
E' proprio per questo che invece di divertente, ho trovato questo libro molto triste; non mi piace dover "fare la guerra" in un posto dove passo buona parte della mia giornata.
RispondiEliminaA presto, Francesca