Quelli che rimangono. Quelli che devono raccogliere i cocci. Quelli che devono fare i conti, perché fino a un momento prima erano una somma e ora sono una sottrazione. Quelli che hanno improvvisamente a che fare con un'assenza, così grande e ingombrante, che è più potente di una presenza. Non è la parola “fine” il demone oscuro con cui devono confrontarsi, ma è “attimo”, l'attimo che ha preceduto questa fine. Perché anche una fine ha un suo inizio ed è questo di cui loro sono disperatamente alla ricerca. Quando ha incominciato a finire? In che giorno, a che ora? Quando?
Che cosa non hanno visto, quale suono è sfuggito, quale sguardo non è stato ricambiato, quale gesto è passato inosservato? Li puoi vedere avvolgere e riavvolgere nella loro menti il nastro degli ultimi giorni, li trovi assorti nella lettura di diari, lettere e bigliettini; li scopri a ripetere conversazioni ormai passate.
E poi la tortura del senso di colpa, hanno fatto di tutto per evitare che questo accadesse? Può un evento così terribile essere predetto e quindi impedito? Chi è il responsabile? Chi il gesto l'ha compiuto o chi non è stato in grado di impedirlo?
Infine la vita che continua, che chiede di essere vissuta, anche per chi, quella vita, ha deciso che non voleva viverla più; a cui bisogna dare un senso, anche per quelli per cui un significato non ce l'aveva più, o non era abbastanza.
Laurent Sagalovitsch ha provato a ricostruire in “Il bastone di Virginia Woolf” attraverso tre voci, il marito Leonard Woolf, il dottore che l'aveva in cura, e la cameriera Louie, gli ultimi giorni che hanno preceduto il suicidio della scrittrice. Ha voluto dare voce a loro, a quelli che rimangono.