lunedì 3 febbraio 2020

Finestre di Manhattan


New York, volenti e nolenti, fa così parte delle nostre vite e del nostro immaginario che è difficile immaginare ci sia ancora qualcosa di nuovo da dire. Che ci sia stati oppure no, ci sembra di conoscerla come le nostre tasche e ascoltiamo dubbiosi, a tratti anche annoiati, chi vuole raccontarcela, illudendosi di poterci sorprendere. Figurarsi chi inizia il racconto affacciandosi a una finestra di un albergo qualunque e che da su un cortile interno: muri di mattoni neri di fuliggine, ventole di aerazione, molti piani sopra a nascondere il cielo.
Quella che racconta all'inizio di “Finestre di Manhattan” è la prima di molte notti che l'autore spagnolo, Antonio Muňoz Molina, trascorrerà nella grande mela. Ed è la prima delle molte finestre a cui si affaccerà e da cui racconterà questa enorme e instancabile città.
Lo farà anche passeggiando senza meta per le sue strade, dai battelli che portano in giro i turisti, in attesa alla fermata della metropolitana, in visita ai numerosi musei, seduto a un tavolino di un locale jazz, o in una poltrona di uno spettacolo a Broadway, il giorno del crollo delle Torri Gemelle.
Ci troverete tutti i cliché, tutti i luoghi più turistici di New York, tutto quello che avete immaginato o visto della città. Eppure ci troverete molto, ma molto di più. Lo sguardo profondo dell'autore, capace di far scaturire riflessioni sulla vita dalla più banale delle viste e di fotografare con le parole.
Siamo stati di nuovo, metodicamente, senza rimorsi, turisti a Manhattan, siamo saliti di nuovo sull'Empire State e abbiamo atteso, appoggiati al parapetto di South Seaport, che si accendessero le ghirlande di luci del ponte di Brooklyn. Abbiamo fatto il giro dell'isola su un battello turistico, circondati da giapponesi che scattavano foto mentre scendevamo lungo la foce dell'Hudson fino alle macerie fumanti delle Torri Gemelle. Abbiamo passeggiato in Times Square nell'ora di punta di un sabato sera e abbiamo attraversato a Central Park, la domenica mattina, la distesa verde e serena dello Sheep Meadow, affinché loro [i figli dell'autore] potessero vedere l'orizzonte complicato e magnifico dei grattacieli.
E adesso hanno fatto il volo di ritorno sul nero dell'oceano Atlantico, sono rientrati in quella metà delle loro vite..., in scenari familiari che adesso guarderanno in un altro modo, perché li vedranno con gli occhi di chi è stato molto lontano e torna cambiato, serbando ancora vivide nella memoria le impressioni del viaggio, pietre di paragone che permetteranno loro di osservare per la prima volta con un certo distacco i luoghi consueti, la vita lasciata in sospeso il giorno della partenza... ciò che hanno visto qui e che pareva irreale e ormai sembra accaduto da molto tempo.
È un racconto lento, quasi a seguire il ritmo del passo dell'autore che percorre le avenue con qualsiasi clima o tempo, quasi a seguire la lentezza di uno sguardo che scorre lento su cose e persone e si prende tutto il tempo necessario per soffermarsi ad osservarle. Potreste quasi avere l'impressione di annoiarvi in alcuni punti ma, quando meno ve lo aspetterete, esattamente come quando si svolta un angolo di un grattacielo mentre si cammina, qualcosa arriverà a sorprendervi.
...che cosa ci faccio qui, con questo quaderno aperto sulle ginocchia, intento a fissare su un foglio di carta e con un sottilissimo filo di inchiostro il momento in cui vivo e le cose che vedo, servendomi delle parole, così astratte,..., per ottenere la precisa descrizione di un istante che mi sfuggirà per sempre, per catturare quel che avviene qui e ora, come la signora Dalloway tentava di afferrare contemporaneamente e in tutti i particolari le impressioni di una mattina di giugno in una strada di Londra.
Guardo e scrivo. Mi piacerebbe che la mano avanzasse da sola, automaticamente, in modo che gli occhi potessero non staccarsi mai, neppure per un attimo, dallo spettacolo che nutre l'intelligenza e la scrittura.
Pronti a innamorarvi o riinnamorarvi di New York? Buon viaggio.

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