«Sto
leggendo un libro di una giornalista che scrive di cultura sul
Corriere della sera. Racconta delle interviste e degli incontri con
alcuni scrittori americani. Brutto lavoro, vero?»
Tempo fa, parlando con mio fratello, avevo riassunto così “Non
scrivere di me” di Livia Manera Sambuy. In effetti, semplificando
molto le cose, e leggendolo superficialmente, è proprio questo che
fa nel suo libro. E lo fa anche molto bene, perché è proprio brava
a scrivere.
Quello
però che la mia frase non dice è la profondità con cui lo fa, di
come lei, i libri e gli scrittori diventino una cosa sola, che quasi
si stenta a credere sia così brava a ricordare tutto, ogni più
piccolo e all'apparenza insignificante particolare: come sono
vestiti, un gesto, un'espressione, un'intonazione della voce. Di come
sia così brava, professionale ed umana da riuscire a farsi aprire la
porta di casa e alle volte anche il cuore da questi autori. Di come
entrino a far parte della sua vita e lei della loro; Philip Roth,
Richard Ford, Paula Fox, David Foster Wallace, solo per fare alcuni
nomi.
L'ho
finito di leggere da parecchio tempo ormai, ma non riuscivo a
scriverne perché non riuscivo a trasmettere proprio questa
sensazione, di unità, come se fossero la stessa cosa, scrittore e
giornalista. Pazzesco come noi lettori interroghiamo i libri così
come Livia Manera Sambuy interroga gli scrittori, come noi entriamo
nelle pagine così lei entra nelle loro vite.
Poi
all'improvviso ho capito: siamo tutti, lettori, scrittori,
giornalisti (alcuni almeno, quelli davvero bravi) alla ricerca di un
significato, tutti alle prese con i nostri interrogativi alla ricerca
di risposte. Ognuno a proprio modo: chi scrivendo, chi leggendo, chi
intervistando. I più fortunati, come Livia Manera Sambuy, riescono a
fare tutte e tre le cose insieme. E a farle bene.
Non so cosa ci sia dentro la vita. Continuo a scoprire pezzetti di significato e a cercare.
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