lunedì 5 ottobre 2015

Non scrivere di me


«Sto leggendo un libro di una giornalista che scrive di cultura sul Corriere della sera. Racconta delle interviste e degli incontri con alcuni scrittori americani. Brutto lavoro, vero?» Tempo fa, parlando con mio fratello, avevo riassunto così “Non scrivere di me” di Livia Manera Sambuy. In effetti, semplificando molto le cose, e leggendolo superficialmente, è proprio questo che fa nel suo libro. E lo fa anche molto bene, perché è proprio brava a scrivere.
Quello però che la mia frase non dice è la profondità con cui lo fa, di come lei, i libri e gli scrittori diventino una cosa sola, che quasi si stenta a credere sia così brava a ricordare tutto, ogni più piccolo e all'apparenza insignificante particolare: come sono vestiti, un gesto, un'espressione, un'intonazione della voce. Di come sia così brava, professionale ed umana da riuscire a farsi aprire la porta di casa e alle volte anche il cuore da questi autori. Di come entrino a far parte della sua vita e lei della loro; Philip Roth, Richard Ford, Paula Fox, David Foster Wallace, solo per fare alcuni nomi.
L'ho finito di leggere da parecchio tempo ormai, ma non riuscivo a scriverne perché non riuscivo a trasmettere proprio questa sensazione, di unità, come se fossero la stessa cosa, scrittore e giornalista. Pazzesco come noi lettori interroghiamo i libri così come Livia Manera Sambuy interroga gli scrittori, come noi entriamo nelle pagine così lei entra nelle loro vite.
Poi all'improvviso ho capito: siamo tutti, lettori, scrittori, giornalisti (alcuni almeno, quelli davvero bravi) alla ricerca di un significato, tutti alle prese con i nostri interrogativi alla ricerca di risposte. Ognuno a proprio modo: chi scrivendo, chi leggendo, chi intervistando. I più fortunati, come Livia Manera Sambuy, riescono a fare tutte e tre le cose insieme. E a farle bene.
Non so cosa ci sia dentro la vita. Continuo a scoprire pezzetti di significato e a cercare.

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