Avevo iniziato a scrivere il racconto della nascita di Vittoria. Arrivata alla terza pagina, e solo alle prime contrazioni, mi sono chiesta a chi mai potesse interessare la cronaca minuto per minuto del mio parto. Forse Vittoria un giorno e qualche sadico?
Ciò non toglie che sabato abbiamo festeggiato il primo mese di vita di VV (time flies when you're having fun!), il nostro primo mese di vita con lei, e mi sono resa conto che per tutto queste tempo ho avuto due pensieri constanti: Vittoria e il parto. E se per il primo pensiero è facile spiegarmi questa “ossessione”, per il secondo non mi era del tutto chiaro il perché. Quando è così, scavo scavo fino a quando non riesco a darmi una spiegazione che abbia un senso, almeno per me.
E io volevo capire questo, non perché il parto non fosse andato come me l'aspettavo, le cose non vanno quasi mai come ce le immaginiamo, ma dove fossi finita io durante il parto, o i miei pensieri e il mio cervello, soprattutto i miei sentimenti e le mie sensazioni.
Ero pronta al fatto che il parto fosse una cosa molto fisica, da alcuni definita “animale”, e certo non mi aspettavo di essere completamente lucida (da qualche parte ho letto che durante il parto una donna non è ritenuta in grado di intendere e di volere... della serie accecate dal dolore), ma non mi aspettavo questa specie di abbandono da parte mio. «Eri molto concentrata» mi ha poi detto mio marito, il che è vero e descrive molto bene il mio agire. Non mi sarei stupita se l'ostetrica alla fine mi avesse detto «Brava bambina, sei stata molto ubbidiente, ecco la caramella che ti avevamo promesso». Ed è proprio quest'ultima battuta che un giorno mi ha aperto gli occhi.
Partiamo proprio da quest'ultimi. Per quasi tutto il tempo della mia permanenza in sala parto, durante ogni spinta, per mezzora, io sono stata con gli occhi chiusi. Dov'ero? Perché se è vero che seguivo pedissequamente le istruzioni di ostetriche, infermiere, dottoresse; ogni volta che mi rivolgevano la parola, avevo la sensazione di tornare da un posto molto lontano, come una sorta di risveglio. Ero così distante che non mi sono resa conto di tante cose, e forse questo è stato un bene...
Ma è proprio questa distanza che mi ha intristita nei giorni seguenti al parto: mi domandavo come avessi potuto essere così fredda, così poco sentimentale, come fosse possibile che neanche per un attimo io abbia pensato all'emozione dell'esperienza che stavo vivendo, a uno degli incontri più importanti della mia vita...
Fino a quando, dopo “occhi”, non mi sono fermata a riflettere sulla parola “bambina”. Sapete cosa ricordo molto bene del mio parto? Le carezze, le parole dolci, gli abbracci, i sorrisi di ostetriche, infermiere e dottoresse, delle donne che sono state al mio fianco per quelle lunghissime 13 ore. Ero completamente nelle loro mani, abbandonata come una bambina indifesa... Proprio così, ero tornata ad essere una bambina. Per diventare madre sono stata per l'ultima volta figlia. Ho lasciato che fossero gli altri, per l'ultima volta, a prendersi cura di me.
Così sabato, mentre brindavo a VV e al suo primo mese, ho pensato questo: che il 6 giugno non è solo il giorno della nascita della mia bambina, ma anche il giorno della mia nascita come madre. Che mentre lei tremante abbandonava il mio corpo e la portavano lontano da me, io rimanevo sul lettino tremante a mia volta, nella mia nuova pelle. Che insieme alle sue prime lacrime, si sono mescolate le mie e i suoi primi passi saranno insieme ai miei. E se a qualcuno può sembrare un po' scontato quello che ho scritto, io solo ora l'ho realizzato e solo ora ho detto addio alla bambina che ero, che è rimasta lì, sul quel lettino della sala parto.